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Contro la crisi ombrelli su misura

di Dario Scannapieco

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14 giugno 2009

L a crisi non è stata causata dall'innovazione finanziaria, ma dal cattivo uso che se ne è fatto, spesso dissociandoi nuovi prodotti dalle originarie esigenze economiche che ne avevano determinato il concepimento o creandoli ai soli fini di elusione delle regole.
L'innovazione finanziaria non deve essere frenata se consente al sistema di funzionare meglio. Innovazioni quali gran parte dei derivati oggi evocano l'idea di strumenti dannosi, venduti ad imprenditori o amministratori pubblici inconsapevoli. Ma essi sono nati come utili strumenti di copertura dai rischi, che stabilizzano i flussi finanziari, minimizzando l'impatto della volatilità dei prezzi o dei cambi e permettono così di conseguire una struttura più efficiente del capitale.

I problemi sono sorti quando operatori con scarse conoscenze specifiche li hanno utilizzati – o sono stati convinti ad utilizzarli – con finalità diverse, a volte speculative. La responsabilità di questo cattivo uso è da individuarsi in alcuni soggetti, spesso mossi da un cattivo sistema di incentivi ( non la qualità del servizio al cliente ma il bonus a fine anno legato ai profitti annuali generati), che a volte li hanno collocati approfittando della scarsa competenza dei propri interlocutori. Ma essa va condivisa anche con chi ha accettato di fare uso di strumenti di cui non aveva colto le modalità di funzionamento e i rischi. Infine, a fronte del diffondersi di questi strumenti sui mercati, a volte è stato tardivo l'intervento dei regolatori.

Anche le cartolarizzazioni oggi vengono additate come prodotto di quella finanza nociva che ha innescato la crisi. Tuttavia esse sono solo uno strumento di funding e gestione del rischio. Occorre quindi solo evitare che le cartolarizzazioni vengano strutturate e collocate in modo pericoloso per gli investitori, impedendo che rischi presi da un soggetto con piene informazioni sulla bontà dei crediti (chi li ha concessi e poi effettua l'operazione) siano trasferiti in modo non trasparente su soggetti che poco o nulla conoscono degli effettivi rischi di tali crediti e quindi dei titoli che su di essi poggiano. È un tema etico e tecnico allo stesso tempo. In questo senso si può dire che la crisi deriva dal fallimento dei mercati finanziari nell'offrire soluzioni ai problemi di moral hazard
ed asimmetria informativa insiti in queste operazioni.

Il vantaggio per chi effettua una cartolarizzazione è quello di liberare il proprio bilancio ottenendo provvista finanziaria. Gli investitori al contempo, ottengono un rendimento a seconda del rischio dei titoli che acquistano. Ma allora dove è il problema? Per rispondere occorre affrontare i temi della concreta strutturazione delle cartolarizzazioni e delle regole contabili. Il valore di un'istruttoria approfondita nel processo di erogazione del credito è fondamentale. Il sapere ex-ante di non dovere tenere in bilancio un credito ma di poterlo cedere al mercato può spingere a ridurre l'accuratezza dell'istruttoria stessa. Nel caso delle operazioni sui mutui residenziali, all'origine della crisi, vi è stata una sottovalutazione del rischio di credito da parte delle istituzioni finanziarie ( ed una conseguente sopravvalutazione degli asset) ed una strutturazione aggressiva di cartolarizzazioni, che una volta entrate in difficoltà hanno generato perdite per i possessori dei titoli innescando una spirale di write-offs e vendite, realizzabili solo con forti perdite in un mercato divenuto illiquido.

Passando alle regole contabili, il riferimento al mercato per valorizzare poste di bilancio (il famoso Ias 39) non può essere adottato in modo meccanicistico se i mercati non funzionano o se gli operatori adottano politiche di gestione di attivi e passivi che li immunizzano dalla volatilità dei mercati. Occorre evitare che tale volatilità si rifletta automaticamente sui risultati di esercizio degli operatori rendendoli troppo mutevoli e poco rappresentativi della loro vera performance.
Gli effetti possono essere paradossali. Se il valore di mercato di certi attivi di bilancio registrasse una forte crescita in un periodo ed una pari diminuzione in quello successivo per poi stabilizzarsi su questo valore più basso, dopo il primo periodo l'operatore dovrebbe registrare utili elevati, per poi scontare il minore valore in perdite. Se distribuisse dividendi dopo la prima oscillazione, allora occorrerebbe chiedersi se abbia effettivamente distribuito utili o piuttosto capitale.

Un esempio degli effetti dell'adozione automatica di queste regole ha riguardato la Bei ma, fortunatamente, solo in linea teorica, in quanto essa riclassifica il bilancio secondo gli Ias a fini puramente illustrativi. Nel 2007 al manifestarsi della crisi, gli investitori si sono rifugiati nei titoli più sicuri, tra i quali le obbligazioni Bei. Per la forte domanda, il loro prezzo è aumentato. Avendo la Bei in bilancio (tra le passività) obbligazioni per oltre 200 miliardi, ciò si è tradotto in un incremento del valore di mercato delle passività, con un impatto contabile - al netto delle operazioni di hedging - negativo di circa un miliardo sul risultato annuale. E ciò solo perché la Bei era percepita come più sicura! Viceversa, nel 2008, il clima di incertezza ha implicato per tutti gli emittenti, inclusa la Bei, un rialzo dei tassi e quindi la riduzione del valore delle sue obbligazioni sul mercato. Nuovo paradosso è che applicando gli Ias, la Banca si sarebbe trovata a registrare un risultato gonfiato per qualche miliardo. Occorre allora domandarsi che senso abbia registrare queste variazione del valore delle passività della banca se la sua policy è di ripagarle a scadenza, in base ad un valore certo. Non è, quindi, un caso che negli Stati Uniti le regole sull'applicazione del mark-to-market siano state modificate dal Fasb, che ha individuato anche proposte per contabilizzare i titoli in bilancio in base alla intenzione o meno di cederli o riacquistarli sul mercato. In Europa, una modifica di tali principi è attesa entro fine anno.

  CONTINUA ...»

14 giugno 2009
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